Imparare ad ascoltare attentamente: la lezione di Dear White People
Negli anni scorsi Netflix ha sfornato una serie che parla di omologazione, pregiudizi, ipocrisia,
violenza e (in)capacità di ascoltare: Dear White People. Forse snobbata, più probabilmente
considerata troppo lontana da noi per la tematica principale – la questione razziale in un’università
americana – ma la serie in questione è uscita in Aprile 2017, ma non se ne è parlato abbastanza.
Oltre ad essere la chiara e ufficiale dimostrazione che i messaggi complessi sono destinati a
restare incompresi, offre anche la possibilità di parlarne una volta per tutte: perché bisognerebbe
guardare e capire Dear White People anche in Italia.
La serie, che rientra nel filone comedy-drama, fa seguito all’omonimo film del 2014 diretto dallo
stesso creatore della serie, Justin Siemen. È ambientata nella prestigiosa University of Winchester
e parte dalla figura di Samantha White, leader della Black Student Union (BSU) e contestatissima
speaker del programma radio universitario “Dear White People” che si propone di smascherare
episodi di razzismo e ipocrisia presenti all’interno dell’ambiente universitario.
Insieme a Sam conosciamo anche le altre persone che bazzicano gli ambienti universitari, ed è
immediata la sensazione di avere a che fare con un ritratto di un’umanità molto più complessa e
meno compatta e coerente di quanto si possa pensare leggendo soltanto qualche recensione
superficiale della trama principale. Il racconto è corale, ma è soprattutto nei faccia-a-faccia e nei
confronti diretti che vediamo i personaggi prendere posizioni, esprimere giudizi e pareri, e non fare
mai fino in fondo quello che serve nei dibattiti: ascoltare attentamente.
Sam è attivista agguerrita contro la discriminazione razziale, eppure tiene nascosta la sua
relazione con Gabe, che è bianco e troverà difficoltà a integrarsi nell’ambiente di lei. Imparare ad
ascoltare significa capire perché quello che Sam, Lionel, Reggie o Coco dicono quando si
confrontano è, quasi sempre, esclusivamente esigenza di imporre la propria voce sulle altre, ma
molto spesso indica soltanto l’esigenza di mascherare tante piccole incoerenze. Rivalsa e
denuncia delle ingiustizie sono, tra le altre cose, messaggi rabbiosi e goffi veicolati da atti di
aggressione verbale. La seconda stagione comincia con lo scontro che ha Samantha con il racist
bot – come lo descrive al padre che, spaesato, è comunque in grado di darle un consiglio
equilibrato – ed è evidente che il confronto con un punto di vista provocatorio e violento la metta in
crisi.
La violenza è una dura prova per i protagonisti della serie, e lo è anche per tutti noi. Viviamo
quotidianamente episodi di violenza fisica, e soprattutto verbale, nei confronti dei quali siamo molto
spesso impreparati perché non siamo in grado di accettare che le nostre posizioni sono fluide, che
la ragione non è semplicemente da un lato o dall’altro: sì, anche quando si tratta di parlare di
razzismo. DWP rivela con estremo cinismo esattamente questo aspetto: noi non siamo slogan, e
meno male, perché gli slogan si assimilano passivamente. Noi abbiamo la possibilità di
comunicare in modi molto più complessi di quelli che ci fanno sentire al sicuro, dietro uno schermo
o dietro un pensiero unico.
Il racconto che ne esce è quello di una comunità molto reale, nessuno stereotipo ideologico regge
in confronto all’umanità che ci lampeggia davanti agli occhi quando capiamo che uno dei messaggi
più forti della serie è che le persone vere sono in grado di avere, e accettare, i propri dubbi.
Smascherare il grottesco, e più in generale il delicato rapporto tra ideologie e ironia, è un
passaggio delicatissimo in cui Dear White People ci insegna ad ascoltare.
All’inizio della prima serie si parla di leggi Jim Crow, ma per noi italiani non è scontato conoscere
questa espressione: dovrebbe risalire a “Jump Jim Crow”, una canzonetta di metà ’800 scritta da
Thomas Dartmouth Daddy Rice, un cabarettista che quando la interpretava si esibiva truccato da
afro-americano. Esattamente come accade durante il party “Black Face”, in cui tutti i bianchi sono
invitati a tingersi il viso di nero, party che diventa il pretesto di tutta la BSU per attaccare gli episodi
di razzismo all’Università.
Nel mirino di Samantha e della BSU c’è in particolare Pastiche, la rivista satirica universitaria che
ironizza e si fa beffe delle proteste, che sarebbero un modo per censurare il libero pensiero.
La seria svela la profonda scorrettezza dell’ironia che è spesso la maschera ipocrita della violenza:
la ghettizzazione ideologica degli afro americani e la potenza del grottesco che fa sempre ridere
soltanto una parte, e quasi mai le cosiddette minoranze. Non a caso i buffoni e i saltimbanchi si
diffondono nelle piazze, ma sono stati da sempre lo spettacolo preferito da re e signorotti: ridere
della miseria è una questione molto più vecchia di quanto possiamo pensare.
Dear White People insegna l’importanza di saper ascoltare perché la comunicazione è troppo
importante per lasciarla fare agli slogan, ai bot e ai vigliacchi dall’umorismo facile. E se in Italia non
l’abbiamo ancora apprezzata abbastanza forse è arrivato il momento di cominciare a farlo.